Oggi approfondiamo un profilo di nullità molto particolare e specifico del patto di non concorrenza, un accordo molto diffuso, che viene spesso utilizzato per integrare i contratti di lavoro dei dipendenti di svariate società, soprattuto quando un lavoratore raggiunge un livello dirigenziale o, comunque, una posizione che comporta determinate responsabilità ed un’autonomia di scelta.

Il patto di non concorrenza, per essere valido, deve avere delle imprescindibili caratteristiche che si elencano di seguito:

  • forma scritta;
  • definizione dell’oggetto;
  • durata predefinita;
  • individuazione di un ambito territoriale di operatività;
  • determinazione di un corrispettivo.

Qualora difetti anche solamente una delle predette caratteristiche, il patto e, conseguentemente, tutte le statuizioni in esso contenute, saranno da considerarsi nulle.

Molto spesso, però, i patti di non concorrenza utilizzati dai datori di lavoro e sottoscritti dai lavoratori, sono nulli, nonostante all’apparenza sembrino presentare tutti i requisiti descritti in precedenza.

In molti casi, infatti, abbiamo analizzato patti di non concorrenza che prevedono un corrispettivo annuale o mensile, che, però, non è quantificato nel suo massimo, in quanto dovuto fino al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Per fare un esempio: il lavoratore percepisce, a titolo di corrispettivo per il patto di non concorrenza, 300,00 € mensili, a partire dalla data di sottoscrizione del patto e sino al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

È evidente che, in base alla predetta formulazione, il compenso per il lavoratore non sia, né determinato, né determinabile. Il lavoratore, infatti, potrebbe essere licenziato e/o dimettersi (per giusta causa o meno), dopo un mese, o dopo tre anni, o dopo cinque anni. Ne consegue che quest’ultimo non sa, effettivamente, l’ammontare del corrispettivo che percepirà a fronte di una rinuncia che, invece, è bene cristallizzata, sia nella sua durata, sia nel suo oggetto.

Va da sé, dunque, che in caso di precoce interruzione del rapporto di lavoro, il compenso percepito dal lavoratore potrebbe  risultare non congruo in quanto troppo basso rispetto alle rinunce contenute nel patto di non concorrenza stesso. Vi potrebbe altresì essere arbitrio del datore di lavoro che, non volendo più pagare il patto di non concorrenza, potrebbe licenziare un lavoratore piuttosto che un altro.

Dunque la ravvisata indeterminatezza e/o indeterminabilità del patto di non concorrenza potrebbe causare la nullità dello stesso, con conseguente libertà del lavoratore di farsi assumere anche da società concorrenti.

Tale tesi viene confermata da svariata Giurisprudenza di merito e della Suprema Corte.

Innanzitutto la Cass. civ. Sez. lavoro, con la sentenza del 08/01/2013, n. 212 ha sancito che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro costituisce una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Ciò per evitare, da un lato, che al datore di lavoro sia attribuito il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, sì da vanificare la previsione della fissazione di un termine certo e, dall’altro lato, che l’attribuzione patrimoniale pattuita a favore del lavoratore in merito all’obbligo di non concorrenza possa venire meno solo in virtù della volontà del datore di lavoro.

In secondo luogo anche la recentissima Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 20/10/2020) 01-03-2021, n. 5540 afferma un concetto fondamentale, ovvero che il patto di non concorrenza, anche se stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo sotto il profilo causale per cui il corrispettivo con esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. e quindi deve essere “determinato o determinabile” ma anche, per giurisprudenza costante, i requisiti evincibili dall’art. 2125 c.c. In particolare il corrispettivo deve essere proporzionato al sacrificio imposto al lavoratore e quindi non simbolico e manifestamente iniquo. La necessaria sussistenza di tali requisiti prescinde dalla circostanza che le parti abbiano pattuito, in caso di cessazione anticipata del rapporto, la corresponsione della parte maturata in ragione d’anno o frazione d’anno.

Ma dunque non si può corrispondere un importo mensile od annuale a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza?

Certo che si può, ma quanto dovuto a titolo di corrispettivo per il patto di non concorrenza dovrà essere una somma predeterminata ab origine. Così facendo si può affermare che l’oggetto della prestazione sia determinato e/o determinabile.

Per fare un esempio, si può pattuire che il lavoratore percepisca, a titolo di corrispettivo per il patto di non concorrenza, la somma totale netta di € 15.000,00, da corrispondersi in rate mensili di € 300,00. Qualora la somma, al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro in essere tra le parti, non sia stata ancora integralmente liquidata, dovrà essere versata insieme alle restanti spettanze di fine rapporto

Attenzione, però, in caso di declaratoria di nullità il lavoratore potrebbe dover restituire gli importi percepiti, in quanto, appunto, versati quale corrispettivo per un patto di non concorrenza rivelatosi nullo.

Va da sé, dunque, che ogni caso sia particolare e debba essere analizzato preventivamente ed approfonditamente, al fine di valutare vantaggi e svantaggi della singola fattispecie e, in seguito a tale analisi, adottare la strategia più conveniente.